mercoledì 17 giugno 2009

Squadracce e guerra tra poveri


Crisi economica, deriva securitaria e razzismo: un mix che abbiamo sotto gli occhi. E ancora di più: le ronde nere con la volontà di pattugliare le nostre strade, il moltiplicarsi di divieti per i soli extracomunitari (non li vogliamo neppure nei giardini pubblici), la volontà di chiudersi in piccoli fortini (per difendere spesso ciò che si pensa di avere), la guerra tra poveri, noi bianchi il bene loro, i diversi, il male e il riemergere dallo stanzino buio della storia dei simboli nazisti (quelli fascisti sono troppo moderati ormai).

Stati Uniti anni '30, la Grande Depressione: tempi diversi, certo, ma risposte e pulsioni tremendamente simili.

"E dicono: vedi come sono lerci, questi maledetti Okies [immigranti Usa in California provenienti dal sud e dal Midwest]; ci appestano tutto il paese. Nelle nostre scuole non ce li vogliamo, perdio. Sono degli stranieri. Ti piacerebbe veder tua sorella parlare con uno di questi pezzenti? E così le popolazioni si foggiano un carattere improntato a sentimenti di barbarie. Formano squadre e centurie e le armano di clave, di gas, di fucili. Il paese è nostro. Guai, se lasciamo questi maledetti Okies prenderci la mano. E gli uomini che vengono armati non sono proprietari, ma si persuadono di esserlo; gli impiegatucci che maneggiano le armi non possiedono nulla, e i piccoli commercianti che brandiscono le clave possiedono solo debiti. Ma il debito è pur sempre qualcosa. L'impiegatuccio pensa: io gaudagno quindici dollari la settimana; mettiamo che un maledetto Okie si contenti di dodici, cosa succede? E il piccolo commerciante pensa: come faccio a sostenere la concorrenza di chi non ha debiti?".

Citazione da: J. Steinbeck, Furore, Bompiani.

d.

venerdì 12 giugno 2009

Tolstoj, stampa e progresso


"Il progresso della stampa, come per il progresso dei telegrafi elettrici, è monopolio di una data classe della società e vantaggioso per gli uomini di questa classe, i quali con la parola progresso intendono solo il proprio vantaggio personale, che, di conseguenza, è sempre opposto al vantaggio del popolo".

Tratto da: Tolstoj, La morte di Ivan Il'ic, Garzanti

d.

giovedì 11 giugno 2009

La nostra idea è la ragione!


In uno dei primi post di questo blog abbiamo scritto di belle speranze che hanno animato la lotta dei rivoluzionari. Ed ora, all'indomani di un duro colpo elettorale, oltre alla ineludibile necessità di capirne le cause, credo che il recupero della nostra speranza, della nostra simbologia sia esso stesso un compito necessario. E lo faccio riportando evocative parole di Antonio Gramsci sul Primo Maggio. Ricordiamoci: oggi perdere la speranza non vale la pena, perchè abbiamo alle nostre spalle una storia di sacrifici e di sangue versate.

È, ogni anno, la sintesi internazionale, la radunata di tutte le nazioni del mondo, nelle città e nei paesi di tutte le nazioni del mondo, delle energie simpatiche, il distendersi delle sulla superficie terreste bagnata di sudore, irrorata di sangue, delle folle sterminate che compiono un rito, che si contano, che nel sapersi tante acquistano maggiore coscienza della fatale necessità che l'idea trionfi, perché essa è la ragione, perché essa è l'anima stessa degli uomini, perché solo essa nella millenaria storia della civiltà è riuscita a far muovere tanti uomini […]”.

È il convegno del mondo, dei lavoratori di tutto il mondo, è un momento della vita mondiale, è una anticipazione, nell'attualità, di ciò che dovrà essere la vita della società futura: comunione universale dello spirito umano, coscienza sentita di esistere con tutti gli altri, di essere tutti gli uomini legati ad uno stesso partito, di essere debitori di una stessa promessa, elevarsi, sviluppare la propria umanità, diventare i dominatori delle forze naturali e storiche, per fare di esse strumento mirabile alla rigenerazione, alla umanizzazione della belva che sonnecchia nel cuore di ognuno, e il cuore vermiglio lanciare verso il sole purificatore”.

Antonio Gramsci, Il Primo Maggio 1918, Il grido del popolo.

d.

venerdì 5 giugno 2009

dante, il prezzo del successo


dante, il padre della lingua italiana. dante, bandiera dell'italianità colta nel mondo. roberto benigni con la sua operazione letteral-mediatica legata alla pubblicazione del libro “il mio dante” e prima ancora alla declamazione della divina commedia nelle piazze italiane ed estere, ha recentemente rinfrescato la memoria dei più sulle straordinarie capacità compositive del sommo maestro.
eppure l'affermazione della divina commedia non seguì un processo del tutto lineare. la tradizione orale diede spazio a diverse storpiature del testo e in alcuni casi fu lo stesso dante, di passaggio, ad ammonire “in diretta” i vari cantori improvvisati.
il libro “classici dietro le quinte”, appena pubblicato da laterza e scritto da giovanni ragone, illustra a tal proposito le tappe che portarono alla pubblicazione della divina commedia. perduti i manoscritti originali, seguirono diverse versioni del testo, molte volte soggette a cattive interpretazioni. svolta importante nella ricostruzione e diffusione dell'opera venne data da giovanni boccaccio, il cui testo distava in realtà in maniera vistosa dall'originale. boccaccio ebbe comunque anche il merito di “introdurre” la lettura della commedia al petrarca (che per molti letterati dell'epoca divenne l'avversario letterario dello stesso dante). chiudiamo questo breve intervento ricordando il rilancio che l'opera dantesca ebbe sotto i medici, quando anche molti fiorentini riuscirono a “digerire” gli attacchi lanciati dal poeta nella commedia all'indirizzo dei loro antecedenti concittadini.

il libro:
giovanni ragone, classici dietro le quinte, ed. laterza

s.

A 20 anni da Tienanmen


Prosegue la canea anticinese degli imperialisti: dopo le accuse di genocidio nei confronti dei tibetani, ecco le "disinteressate" e "democratiche" celebrazioni dei vent'anni dai fatti di piazza Tienanmen.

Insomma, è riesplosa l'Internazionale dello "stracciamoci le vesti" che della Cina Popolare ha fatto il suo costante obiettivo.

Per ricostruire i fatti di quel lontano 1989, ecco, alla nostra e vostra attenzione, un articolo dello storico Domenico Losurdo.

Tienanmen, 20 anni dopo >>

d.

giovedì 4 giugno 2009

Invasione! Cacciamoli, ammazziamoli!


Gli italiani cominciano ad esagerare con le loro pretese. Presto ci tratteranno come un Paese conquistato […]. Fanno concorrenza alla manodopera francese e si accaparrano i nostri soldi a vantaggio del loro Paese”; I Francesi devono essere protetti da “questa merce nociva, e peraltro adulterata che si chiama operaio italiano”.

Così nel 1893 – ma sembra di leggere una Padania di un secolo dopo - si esprimeva la stampa nella Francia meridionale – cito Le Jour e La Lanterne - a proposito dell'immigrazione italiana (essenzialmente “padana”). E nell'agosto dello stesso anno, a Aigues Mortes (Camargue), avviene il primo eccidio nella lunga e sanguinosa storia della nostra emigrazione: 9 operai linciati da una folla inferocita di lavoratori locali.

Agli italiani, come rilevava l'Internazionale socialista due anni prima, toccava il compito “umiliante di turbatori di sciopero e di rinvilitori di salario”. A questi, insomma, si rivolgeva il padronato locale per sostituire gli scioperanti francesi (in lotta per miglioramenti salariali, non per divertimento!) o per tenere bassi, con una concorrenza fatta di disperati e affamati, i loro salari.

L'odio e le paure dei lavoratori francesi si scagliarono così contro l'obiettivo sbagliato, contro una massa di disperati diventata massa di manovra dei padroni degli uni come degli altri. Quei padroni che parlavano pubblicamente di difesa del lavoro nazionale e privatamente lavoravano a difesa del proprio profitto … grazie a noi pezzenti italiani.

E quando, mi chiedo, noi lavoratori italiani, minacciati nei diritti come nei redditi, ci lanceremo contro i nostri finti nemici? Quando, così poveri ma tanto fieri della nostra italianità, faremo la gioia dei nostri padroni?

Ps:
Così si si leggeva nella inchiesta parlamentare francese (Rapporto Spuller) sulla condizione operaia del 1884: “L'operaio italiano è caratterizzato dal fatto d'essere più docile, più malleabile; gli si fa fare tutto ciò che si vuole, abbassa la schiena e tende la guancia per ricevere un altro schiaffo. Come uomo, trovo la cosa rivoltante. Questi operai non hanno dignità personale; sopportano tutto, chinano il capo e obbediscono”.


Da leggere:
Morte agli Italiani!”, Enzo Barnabà, edizioni Infinito

d.

lunedì 1 giugno 2009

Il “mostro” disse: vendete le vostre braccia


Stati Uniti anni '30: il capitale bancario arriva nelle campagne sotto forma di trattrici diesel e scaccia dai campi contadini e mezzadri: che elemosinino altrove il lavoro. E ancora una nuova guerra tra poveri. Un incubo sulle zolle americane, la fine del sogno jacksoniano del contadino che dissoda la sua terra, proprio quando il neo presidente Roosevelt annuncia che i “mercanti sono fuggiti dal tempio della nostra civiltà”.

Ecco le parole di John Steinbeck (Nobel per la letteratura 1962):

E arrivarono le trattrici. […] Mostri dal grifo appuntito che procedevano il linea retta sui loro cingoli entro nuvole di polvere, grufolando inesorabili, superando palizzate, cortili, avvallamenti, squarciando la terra, insinuandosi sotto gli atrii delle case coloniche, dissodando le aie, scalando ripe, abbattendo cinte, ignorando ogni ostacolo.
Sul suo sedile di ferro il conducente non aveva aspetto umano. Inguantato, occhialuto, mascherati il naso e la bocca contro la polvere, era parte integrante, del mostro, era un fantoccio meccanico. […]
Il conducente non poteva impedire al mostro di avanzare e retrocedere in linea retta per la campagna e di travolgere nella sua marcia dozzine di fattorie. Azionando leve e comandi si sarebbe potuto deviarlo, ma il conducente non poteva perché un altro mostro, il mostro che aveva costruito la trattrice, che l'aveva inviato sul posto s'era immesso nella mani, nel cervello, nei muscoli del conducente, lo teneva imbrigliato e imbavagliato … imbrigliata la mente, imbavagliata la bocca, imbrigliate le sue facoltà di percezione, soffocata ogni sua voce di protesta. Non poteva vedere la campagna così com'era, né assaporare l'odore genuino della terra, né calpestarne le zolle, né sentirne il calore e la forza. Sedeva su uno sgabello di ferro e premeva pedali di ferro. Non poteva apprezzare né comprimere, o maledire o incoraggiare il proprio potere nei confronti della terra e di conseguenza era incapace di provare gioia o tormento, furore o sollievo. Non conosceva la terra, non era sua, non aveva fede in lei, non la supplicava. Se un granello di seme non germinava, egli non se ne dava pensiero. Se i teneri sprocchi appassivano nella siccità o affogavano sotto la pioggia, egli rimaneva indifferente, come la trattrice.
Non amava la terra, non più di quanto l'amasse la banca; ma non amava nemmeno la trattrice. […] Il conducente sul suo sgabello di ferro s'inorgogliva dell'impeccabile dirittura dei solchi che non tracciava lui, della trattrice che non era sua e ch'egli non amava, della potenza di cui si sapeva schiavo. E s'arrivava alla maturazione a alla mietitura senza che nessun essere umano avesse sbriciolato con le mani le tiepide zolle o setacciato la terra tra le dita, senza che nessuno avesse toccato il seme o ne avesse spiato con ansia la crescita. Gli uomini mangiavano ciò che essi non avevano coltivato, più nessun vincolo li legava al proprio cibo. La terra s'apriva sotto il ferro e sotto il ferro gratuitamente inaridiva: nessuno c'era più ad amarla o a odiarla, nessuno più la supplicava o malediceva. […]"

J. Steinbeck “Furore”, ed. Bompiani.