venerdì 19 marzo 2010

Comunisti, colonialismo e resistenza: la lezione di Togliatti


Nell’Italia resiste da mezzo secolo un mito: quello del colonialismo dal volto umano, del soldato italiano impegnato a portare la civiltà (strade, ospedali, scuole …) in Africa (Libia, Somalia, Eritrea e Abissinia). Un’intera pagina della nostra storia tenuta nascosta, coperta dalla polvere degli archivi, quando non negata, e sacrificata all’immagine di un colonialismo preteso come diverso. Oppure espulsa dalla storia patria come una parentesi legata al regime fascista, anch’esso, per alcuni, un incidente di percorso. Parentesi all’interno di parentesi che altro non fanno che nascondere la verità e rinviare la resa dei conti, la riflessione con le nostre “pagine nere”.

Le pagine tipiche di ogni colonialismo non solo quello fascista, ma dell'intero Occidente: repressione, despecificazione, genocidio e segregazione razziale. Nazismo e fascismo non sono che i figli legittimi di questa tradizione.


Un mito che ha ripreso vigore più che mai in questi anni di guerra contro il "terrorismo". Ancora i nostri soldati, armati di tutto punto, ad esportare civiltà e democrazia. Noi siamo diversi, noi non facciamo la guerra, noi non occupiamo, aiutiamo. Ancora scuole, ospedali, strade…

Più volte Angelo del Boca, lo studioso del colonialismo italiano, ha chiesto di fare i conti con questa parte della nostra storia, di portare alla luce del sole le atrocità commesse e restituire la dignità ai popoli oppressi e alla loro resistenza all’aggressione. Una resistenza, ovviamente armata, che è nata come risposta non solo ad una invasione ma, soprattutto, ad un progetto di sterminio attuato con rastrellamenti, fucilazioni, bombardamenti indiscriminati e campi di concentramento. Una resistenza tenace e popolare fatta di uomini, donne e bambini pronti a sostenere moralmente e logisticamente i combattenti.

Per stroncare la ribellione e spezzare il forte legame tra ribelli e popolazioni, le autorità italiane ricorsero fin dall’inizio a fucilazioni di massa e incendi di villaggi, e sfruttarono una superiorità tecnologica che rendeva impari ogni confronto. Durante l’aggressione alla Libia del 1911 (il fascismo ancora non c'era) debuttarono, per la prima volta nella storia, i bombardamenti aerei e si sperimentarono quelli chimici poi utilizzati su vasta scala nel 1935-36 per piegare la resistenza abissina: ben 1597 le bombe a gas sganciate. Bombardamenti indiscriminati su villaggi, raccolti e bestiame. Tutta la popolazione indigena era sospettata di essere ribelle e complice dei banditi. Chiarissimi, a questo proposito, gli ordini di Mussolini a Graziani impegnato nella repressione in Libia: “autorizzo ancora una volta V.E. a iniziare e condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici”. E a Badoglio pochi giorni prima dell’ingresso delle truppe italiane in Addis Abeba (maggio 1936): “Occupata Addis Abeba V.E darà ordine perché: 1) siano fucilati sommariamente tutti coloro che in città o dintorni siano sorpresi con le armi alla mano, 2) siano fucilati sommariamente tutti i giovani etiopi, barbari, crudeli, pretenziosi, autori mortali dei saccheggi, 3) siano fucilati quanti abbiano partecipato a violenze, saccheggi, incendi 4) siano sommariamente fucilati quanti, trascorse 24 ore, non abbiano consegnato armi da fuoco e munizioni”. Lo testimoniano ancora meglio i quindici campi di concentramento sparsi tra Libia, Eritrea e Abissinia in cui anche semplici sospetti morivano per fame, epidemie di tifo, dissenteria, violenza dei guardiani ed esecuzioni giornaliere a cui i prigionieri erano costretti ad assistere. Un esempio per tutti: quando in Libia nel 1930 Graziani trasferì forzatamente centomila persona dalla Marmarica nei campi di concentramento nella Sirtica, ben 40 mila morirono durante la marcia e in tre anni di prigionia.

Sullo sfondo di questa guerra di sterminio agiva l’ideologia della missione di civiltà, mascheratura e giustificazione del colonialismo europeo ed occidentale. Ad affrontare le truppe italiane non c’erano uomini, ma barbari appartenenti a razze inferiori, inabili e avviate al regresso. Contro non-uomini come i resistenti libici o abissini tutto diventava lecito. D’Annunzio parlava degli arabi come “non uomini ma cani”, Giolitti si augurava che vi potessero essere solo guerre coloniali perché significavano “la civilizzazione di popolazioni che in altro modo continuerebbero nella barbarie” e, infine, Badoglio, governatore della Libia, sottolineava nel 1929 che “noi siamo qui la nazione dominante che ha cacciato via l’inetto dominatore e vi si è sostituita per esercitare un’alta missione di civiltà” da portare a compimento “a qualsiasi costo”. Questo è stato, in sintesi sommaria, il colonialismo italiano dal volto umano cui si ribellarono, nel silenzio della propaganda, interi popoli.

A fianco di quello abissino si schierò, invece, nel 1935, alla vigilia dell’attacco italiano (italiano, non semplicemente fascista), il Partito comunista d’Italia. Così si espresse Togliatti nel VII congresso dell’Internazionale comunista:


Il Pcd’I ha completamente ragione di prendere un atteggiamento disfattista verso la guerra imperialista del fascismo italiano, lanciando la parola d’ordine Giù le mani dall’Abissinia e io vi assicuro che se il Negus d’Abissinia spezzando i piani di conquista del fascismo, aiuterà il proletariato italiano ad assestare un colpo tra capo e collo al regime delle camicie nere, nessuno gli rimprovererà di essere arretrato. Il popolo abissino è alleato del popolo italiano contro il fascismo e noi gli esprimiamo la nostra simpatia”.


Una posizione libera da ogni cedimento all’ideologia colonialista e in grado di comprendere il valore universale e la portata strategica della lotta anti-colonialista di fronte ad un fascismo ormai prossimo all’alleanza con il nazismo.

Una tradizione di lotta antimperialista e anticoloniale che oggi, nel campo della sinistra italiana, ha lasciato il posto ad un confuso ed inconcludente pacifismo assoluto. Di fronte alle occupazioni di Afghanistan e Iraq e allo sterminio del popolo palestinese, si nega, non solo solidarietà, ma anche la legittimità alla resistenza armata. Scompare la distinzione fra aggressore e aggredito, non piacciono i metodi di lotta troppo poco “occidentali”, passando sopra la vocazione sterminista della tecnologia bellica utilizzata dall’occupante, e si biasima la presunta mancanza di una progettualità politica. Si rimprovera, insomma, agli iracheni di non essere come i partigiani italiani, di non avere i loro CLN.

L’opposto, insomma, di quanto enunciato da Togliatti nel lontano 1935. Voler imporre un proprio modello di resistenza universalmente valido è un cedimento alla ideologia colonialista, a quella della pretesa superiorità occidentale. Significa, inoltre, non comprendere come una lotta di liberazione nazionale contro l’occupante possa bloccare un progetto di dominio mondiale come quello concepito e messo in pratica dall’amministrazione americana con i bombardamenti indiscriminati, i campi di concentramento e le torture. Le legittimità della lotta dei libici e degli etiopi è la stessa di quella degli iracheni o dei palestinesi. Per questo è necessario riconoscere il ritorno, in salsa contemporanea, delle forme neocoloniali, militari e ideologiche, di asservimento.

Un suggerimento bibliografico

Un viaggio nella tradizione colonialista e sterminatrice dell'Occidente.

Sterminate quelle bestie, Sven Lindqvist, TEA, 2003

1 commento:

  1. mi complimento vivamente di questo blog e del suo o dei suoi autori. Già la scelta delle citazioni indica un percorso compiuto molto alto e un punto che guarda al futuro. Spero di poter dialogare ed interessarmi con voi nella costruzione del comunismo prossimo futuro

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